Annamaria Biavasco è nata a Savona, ma dal 1984 abita a Genova. Laureata in lingue e letterature straniere moderne con una tesi sul teatro di Arnold Wesker, ha sempre lavorato come traduttrice, tecnica e letteraria. Dal 1997 al 2010 è stata docente a contratto al corso di laurea per traduttori e interpreti dell’università di Genova e dal 2011 lavora part-time come traduttrice e interprete per il ministero della Difesa.
Valentina Guani è nata a Genova, ma ha studiato a Firenze, dove si è laureata in lingue e letterature straniere moderne e diplomata in traduzione e interpretazione alla Scuola Superiore per Traduttori e Interpreti. Ha sempre avuto una doppia vita, metà traduttrice e metà interprete di conferenza, socia di Assointerpreti dal 2000. Alla fine degli anni Ottanta ha fatto il salto dalla traduzione tecnica e commerciale a quella letteraria cominciando a lavorare a quattro mani con Annamaria Biavasco, e non ha mai più smesso.
Annamaria Biavasco e Valentina Guani fanno parte di quel concerto di traduttori, molto meno frequente di quel che si possa pensare, che lavorano a quattro mani. Di recente hanno ritradotto per Neri Pozza uno dei classici della letteratura americana degli anni Trenta, Via col vento di Margaret Mitchell.
Annamaria Biavasco e Valentina Guani, coppia di traduttrici che ha all’attivo più di 150 traduzioni. Si potrebbe parlare quasi di un unicum. Come si traduce a quattro mani? Come gestire la mole di lavoro e come organizzarsi?
Abbiamo iniziato a lavorare insieme alla fine degli anni Ottanta. Ci univa il fatto che eravamo accanite lettrici, traducevamo testi tecnici e sognavamo entrambe il salto – o vogliamo chiamarlo spillover, dato il periodo? – verso la traduzione editoriale. Tradurre a quattro mani vuol dire “perdere” un sacco di tempo a discutere interpretazioni e scelte traduttive, e quindi acquistare consapevolezza del fatto che la traduzione non è mai “una, bella e fedele”, ma un equilibrio di significati, emozioni, ritmo, eccetera. Dire quasi la stessa cosa è il titolo più bello che Eco potesse dare al suo saggio sulla traduzione: in quel “quasi” è riassunto il lavoro del traduttore.
In genere dividiamo il lavoro a metà e rivediamo ciascuna la metà dell’altra per poi rileggere insieme tutto il testo varie volte. Seguiamo le ripartizioni del libro, per parti e/o capitoli, ma ci è capitato anche di dividere per “voci” in quei romanzi dove la vicenda avanza su diversi piani temporali o riporta il punto di vista di vari personaggi.
La vostra ultima fatica, la ritraduzione di Via col vento, è stata accolta senza mezzi termini: per alcuni capolavoro assoluto che finalmente dà giustizia al romanzo di Margaret Mitchell, per altri una scelta di marketing volta a declinare la storia di Scarlett O’Hara in termini di politically correctness. Com’è nata l’idea di ritradurre Via col vento? Siete state contattate dalla casa editrice o avete proposto voi il progetto?
Siamo state contattate dalla casa editrice, che voleva riproporre questo grande successo ai lettori del Terzo Millennio. Le traduzioni invecchiano e la sensazione è che in questo caso sia invecchiata più dell’originale. Magari anche per via di caratteristiche strutturali della lingua inglese: per esempio she e he usavano ai tempi di Margaret Mitchell come ora, mentre “ella” ed “egli” adesso suonano terribilmente datati.
A chi si lamenta della modifica del linguaggio degli schiavi, diremmo di leggere la vostra nota alla traduzione nel volume edito Neri Pozza. Vi siete poste problemi a riguardo di come il lettore potrebbe percepire questi cambiamenti in un’opera che fa ormai parte della cultura popolare?
Di solito pensiamo al lettore solo se abbiamo il dubbio che il destinatario nella mente dell’autore sia troppo diverso dal nostro, per esempio quando temiamo che il lettore italiano possa non cogliere l’allusione a uno spot UK, una canzone australiana o un giocatore di baseball USA.
Nel caso di Via col vento, però, abbiamo dovuto fare i conti con il folto pubblico di ammiratori italiani che avevano conosciuto i personaggi e la storia attraverso le precedenti traduzioni del romanzo e del film. Non potevamo trascurare che alcune battute erano diventate celeberrime, veri e propri meme. È il caso del famoso “Francamente, me ne infischio”: nel romanzo Frankly non c’è, ma nella nostra traduzione lo abbiamo aggiunto in omaggio agli appassionati del film.
Oltre al linguaggio degli schiavi, c’è anche la ricorrenza della parola con la n, per dirla in termini americani. Vi va di parlarci di come avete affrontato la questione?
Anche per questo vi rimandiamo alla nota alla traduzione, dove illustriamo le nostre scelte traduttive riportando il numero di occorrenze della parola con la n nell’originale e di “negr*” nella traduzione del 1937, di molto superiore a quella del 2020. Non è il risultato di una forzatura nostra o della casa editrice per rendere politically correct il romanzo di Margaret Mitchell. Riflette piuttosto l’evoluzione di due termini che nel tempo hanno acquisito una connotazione sempre più negativa. La sensibilità è molto cambiata da quando Gone with the Wind fu scritto e poi tradotto. Basti pensare che negli USA alcuni sono arrivati a proporre di sostituire the n-word con slave (schiavo) in Huckleberry Finn e di escludere dai programmi scolastici la lettura di To Kill a Mockingbird e Of Mice and Men. [Il buio oltre la siepe e Uomini e topi NdR.]
Dall’altra parte invece, c’è chi non avrebbe voluto vedere ritradotto questo libro (come ha comunicato più di una persona in una vostra intervista per Fahrenheit di qualche tempo fa), perché percepito come razzista. Non è meglio farsi carico di testimoniare anche quella parte di storia che vorremmo cancellare ma che, purtroppo, esiste? Come deve comportarsi un traduttore in questi casi?
Via col vento è un romanzo che può essere definito razzista perché narra in tono nostalgico una società schiavista in cui i neri sono meri oggetti di proprietà dei bianchi (e talvolta sembrano persino contenti di esserlo). La nostra traduzione non è un’operazione di maquillage. Non abbiamo edulcorato le parole di Scarlett, quando dà degli “scimmioni” a un gruppo di ex schiavi che ridono di lei mentre arranca sotto un acquazzone con le sottane infangate. Abbiamo semplicemente cercato di restituire una situazione di grande disparità sociale in termini di “casta”, piuttosto che di “colore della pelle”. È una delle grandi differenze fra la nostra traduzione e quella – pur molto ben fatta – dei colleghi Salvatore e Piceni, influenzati dallo spirito littorio dei loro tempi.
La vostra è stata un’impresa, anche perché prima di voi gli unici italiani a cimentarsi con Via col vento sono stati Ada Salvatore ed Enrico Piceni, nel 1937. In fase di traduzione, avete consultato il loro lavoro in itinere o avete lavorato esclusivamente sul testo di origine e poi solo successivamente avete fatto un confronto?
Abbiamo lavorato alla prima stesura esclusivamente sul testo originale e, per non lasciarci influenzare, abbiamo consultato la prima traduzione solo all’ultimo. Avevamo entrambe un volume un po’ sbrindellato del 1937, rispettivamente di una nonna e di una zia.
Per curiosità, ci siamo procurate la traduzione francese e ogni tanto abbiamo sbirciato anche quella. È del 1938, integrale, di Pierre François Caillé; ma anche in Francia sta per uscirne una nuova. Una curiosità: Caillé già nel ’38 aveva lasciato i nomi dei personaggi in originale.
Di mezzo, tra la ritraduzione e il romanzo originale c’è il film, intoccabile, del 1939 di Victor Fleming con l’indimenticabile Vivien Leigh, accompagnata da Clark Gable, Leslie Howard e Olivia de Havilland. Quanto è stata ingombrante la presenza della trasposizione cinematografica per il processo di traduzione?
Abbiamo guardato il film più volte, in originale e doppiato. Come avremmo fatto a tradurre le mises di Scarlett senza aver visto quelle di Rossella nel film, per esempio?
Tradurre 1200 pagine non è una passeggiata, nemmeno se la mole del lavoro viene divisa in due. Ma immaginiamo che ci siano stati momenti in cui vi siate divertite molto. Ci sono passaggi che vi hanno fatto dire “Che bello!”? E al contrario, quali sono stati i punti più difficili da tradurre?
Non è stata una passeggiata, e probabilmente come numero di cartelle è stato il record della nostra carriera, ma ci siamo divertite, soprattutto in certi scambi di battute e nel dialogo interiore di Scarlett, con la sua prontezza e la sua impagabile doppiezza.
I punti più difficili sono stati, come già accennato, quelli in cui abbiamo dovuto cercare il giusto equilibrio tra una storia che quasi giustifica il Ku Klux Klan e la sensibilità politically correct di oggi.
Ma la difficoltà maggiore di quest’impresa è stata la consapevolezza che, per una volta, l’attenzione sarebbe andata alla traduzione forse anche più che alla trama, già nota a molti. E spesso questo ci ha messo in soggezione.
Com’è stato lavorare con l’editore? Ci sono stati momenti di dibattito?
Con Neri Pozza collaboriamo da molti anni e abbiamo sempre lavorato bene insieme. Abbiamo sottoposto alla redazione la Parte Prima del romanzo non appena l’abbiamo completata, spiegando le nostre scelte traduttive, per avere modo eventualmente di correggere il tiro. Hanno approvato, senza chiederci di cambiare nulla. A revisionare la traduzione è stata Giovanna Dossena, che con grande cura, acume e professionalità ha migliorato il nostro testo ogni volta che ce n’era bisogno. Grazie, Giovanna!
Questa ritraduzione vi ha messo sotto i riflettori, cosa che ai traduttori capita di rado (e quando capita solitamente è per le critiche mosse dai lettori). Com’è il vostro rapporto con il lettore?
Di solito il nostro lettore fa parte della cerchia ristretta di amici e parenti che ci sopportano nell’imminenza della consegna, ci danno consulenze e suggerimenti in corso d’opera e leggono i “nostri” libri appena usciti. Questa volta il raggio si è allargato molto di più, abbiamo incontrato tantissimi lettori alle presentazioni del libro che sono state fatte prima che il coronavirus ci riducesse in stato di assedio come Atlanta durante la guerra, e tanti ne incontriamo anche adesso grazie alla tecnologia. È una grande soddisfazione: finalmente i traduttori non vengono nominati soltanto per criticare le loro scelte!
Prima di lasciarci, considerando il momento difficile in cui stiamo vivendo come pensate che cambierà il mondo della traduzione finita l’emergenza? Ci spieghiamo meglio, pensate che ci troveremo in una situazione del tipo che le case editrici saranno costrette a stampare meno libri e quindi ad aumentare la qualità generale della produzione (e quindi anche traduzioni migliori)?
Come tutti, ci auguriamo che la pandemia non porti solo costi, ma anche benefici. Come tanti, speriamo che non ritorni tutto come prima, ma che questa crisi sia un’occasione per riflettere, e migliorare. Certo è che negli ultimi anni sempre meno persone leggevano e il libro si apprestava a diventare un oggetto in via di estinzione. Forse questo periodo di forzata clausura ha portato molti a riprendere in mano un libro – o un e-book reader – e a riscoprire il piacere lento e meditativo della lettura.
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