#RadicalBookFair | Intervista a Giulia Zavagna: il lavoro in redazione, Edizioni SUR

Giulia Zavagna è nata nel 1986 a Santa Margherita Ligure e vive e lavora a Roma. Traduce narrativa e saggistica dallo spagnolo. Dal 2014 lavora per SUR in qualità di editor e redattrice. È docente di impaginazione, revisione e scouting editoriale presso la Scuola del libro.

Parlando di chi lavora in redazione non potevamo non intervistare Giulia Zavagna, che oltre a tradurre è anche editor e redattrice per SUR. Ha gentilmente accettato di rispondere alle nostre domande e quindi, senza troppi indugi, ecco le sue risposte.


Giulia Zavagna, redattrice e editor per edizioni SUR, collabori con diverse case editrici svolgendo attività di revisione e traduzione dallo spagnolo e dall’inglese. Come ti sei avvicinata al mondo editoriale?

Il mio percorso è piuttosto standard da questo punto di vista: ho studiato lingue e traduzione all’università di Genova, e poi, per evitare di slancio l’horror vacui che mi aspettava dopo la laurea, mi sono iscritta a un corso di editoria che ho seguito a Roma. Quella è stata l’esperienza che ha cambiato tutto, lo ricordo davvero come uno dei periodi più pieni e stimolanti in assoluto: era esattamente quello che cercavo, perché mi ha permesso di scoprire nel dettaglio la filiera editoriale, il percorso di un testo, e di una traduzione, dalla sua forma più grezza e quella di libro vero e proprio, grazie al certosino mestiere del redattore, e poi il suo viaggio dalla casa editrice verso il mondo, attraverso il lavoro di promozione, comunicazione e ufficio stampa. Insomma, ho trovato pane per i miei denti, oltre a persone bellissime che sono ancora oggi punti di riferimento. E soprattutto ho avuto la certezza che avrei voluto trasformare quelle nozioni in un lavoro, e che vivere in quel mondo non mi sarebbe affatto dispiaciuto. Dopo il corso, ho svolto un tirocinio presso la casa editrice minimum fax e ho iniziato, poco a poco, ad attivare le prime collaborazioni esterne con editori e service editoriali. Poi è arrivata qualche traduzione e pian piano le cose hanno cominciato a ingranare. Dopo tre anni da freelance, in cui la versatilità è stata all’ordine del giorno, nel 2014 sono entrata nella redazione di SUR, e da allora alterno il lavoro in casa editrice alle traduzioni.

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Lavori per Edizioni SUR, una realtà molto felice che porta da anni in Italia della letteratura di qualità proveniente principalmente dal Sud America. Qual è il tuo ruolo all’interno della casa editrice?

Sono editor e redattrice. Mi occupo della collana latinoamericana in tutti i suoi aspetti: dalla selezione dei titoli, in particolare quelli di autori contemporanei, alla revisione dei testi, seguo le lavorazioni redazionali fino alla scelta della copertina e al visto si stampi. Tuttavia, il lavoro di squadra è fondamentale in ogni casa editrice, per noi irrinunciabile: non potrei chiudere nemmeno un singolo titolo senza la costante collaborazione con i colleghi.

Traduttrice, correttrice di bozze, editor e non solo. Pensi che queste siano qualità che ogni lavoratore del mondo del libro dovrebbe avere? La duttilità salverà il mondo? Oppure è meglio specializzarsi?

Domanda interessante, per la quale forse non ho una risposta. Ritengo che per iniziare ad affacciarsi al mondo editoriale, sia assolutamente utile conoscere i vari elementi e mestieri che compongono la filiera del libro, per aumentare la consapevolezza del proprio ruolo, che si inserisce sempre in un sistema, e anche per trovare la strada giusta. Spesso ci si avvicina all’editoria mossi da un semplice e vago amore per i libri, sacrosanto e bellissimo, ma che non sempre si traduce nelle competenze necessarie a farne una professione. La duttilità è fondamentale all’inizio, credo, ma dipende moltissimo dal contesto. In generale, nell’editoria indipendente e medio-piccola, spesso ci si trova a fare di necessità virtù, accumulando competenze varie da poter applicare in più contesti. Non penso sia negativo in assoluto, credo che tutto faccia mestiere, almeno in un primo momento, e contribuisca poi a creare maggiore consapevolezza e professionalità.
Detto questo, ricordo di aver pensato a un certo punto del mio percorso che non volevo più imparare nulla di nuovo, ma piuttosto applicare la mia curiosità e la mia voglia di scoprire a ciò a cui già mi dedicavo, imparando a farlo sempre meglio. Oggi mi trovo di fatto ad avere un ruolo molto specifico: sono un editor di narrativa straniera e, all’interno di quell’ambito, mi occupo solo di un’area linguistica e geografica molto determinata. Può essere visto come un limite a livello professionale, o come un lusso: io ne sono felicissima, perché mi permette un approfondimento che è raro potersi concedere, visto il ritmo a cui normalmente l’editoria è soggetta.

Domanda molto vaga, ma immaginiamo che interessi a molti lettori: come nasce un libro in casa editrice? Quali passi si seguono per far sì che il manoscritto arrivi sugli scaffali?

Uh, potremmo parlarne per ore! Provo a riassumere, basandomi sull’esperienza di SUR, che pubblica solo narrativa straniera: i manoscritti ci arrivano nelle modalità più varie, principalmente da agenti e editori stranieri, ma a volte anche attraverso gli autori stessi, o spesso grazie a proposte avanzate dai traduttori. A questo flusso costante si unisce poi il lavoro di ricerca, che ogni editor in casa editrice porta avanti autonomamente seguendo testate e pubblicazioni straniere, tenendo d’occhio i premi e le classifiche internazionali, e anche lasciandosi guidare dalla propria curiosità e dalle proprie idiosincrasie. Quando si adocchia un manoscritto interessante, se ne valutano diversi aspetti che – semplificando moltissimo – possiamo condensare in tre elementi: la forma (ovvero la scrittura, lo stile, la voce della narrazione), il contenuto (la tenuta narrativa, l’intreccio in sé) e la vendibilità (le possibilità commerciali, la traducibilità, sia in termini di lingua, sia di contenuto). Dopo le necessarie valutazioni, se si è convinti del libro si procede a fare un’offerta per acquistarne i diritti. Se l’offerta viene accettata, parte il vero e proprio lavoro sul testo, che viene affidato a un traduttore. La traduzione arriva in casa editrice diciamo almeno sei mesi prima dell’uscita del libro, si procede quindi a farne una revisione (che può essere svolta internamente o affidata a un collaboratore esterno). Il revisore si confronta poi con il traduttore fino a raggiungere una stesura finale. A quel punto il testo viene impaginato e da file word acquista la forma di libro vero e proprio. L’impaginato viene stampato e su carta si procede con la correzione di bozze. Di norma si fanno almeno due letture, a volte, se si tratta di un titolo particolarmente complesso, anche tre. Parallelamente al lavoro sul testo comincia l’ideazione della copertina, che di solito si svolge in collaborazione con uno studio grafico. Circa tre mesi prima dell’uscita la copertina deve essere pronta, perché parte anche il lavoro di promozione: si preparano delle schede di presentazione e approfondimento per raccontare ogni titolo a promotori e librai. Infine, circa un mese prima dell’uscita, il manoscritto diventato libro va finalmente in stampa. Con le copie a disposizione, comincia anche il lavoro di comunicazione dell’ufficio stampa, rivolto a giornalisti e blogger, e il lancio della novità sulla stampa e sui social network.
Questi sono grosso modo i passi che compie un libro di narrativa straniera. Nel caso del manoscritto di un autore italiano, il lavoro di traduzione e revisione corrisponde a grandi linee alla fase dell’editing.
Senz’altro mi sono dilungata troppo, ma ognuno di questi singoli passaggi è fondamentale per la buona riuscita di un libro: per la creazione di un oggetto ben fatto, gradevole dentro e fuori, e per la progettazione di un lancio adeguato, perché il titolo riesca a farsi strada sui banconi delle librerie tra le moltissime novità che escono ogni giorno.

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Dai software ai libri (e non solo), quali sono gli strumenti di un buon Editoriale?

Proverò a essere sintetica su questo: le fonti sono pressoché infinite e cambiano moltissimo a seconda dei titoli su cui si lavora. I dizionari sono lo strumento che consultiamo più spesso, insieme ai manuali di stile (il mio preferito è il Lesina) e a Google, ormai indispensabile. Quanto ai software, per me i principali sono il classico Word e InDesign, che uso per l’impaginazione. A volte mi avventuro anche su Photoshop e Illustrator, ma per fortuna mi capita raramente. Poi ci sono carta e penna, che imperituri continuano a essere fondamentali per chiunque si trovi a lavorare su un testo.
Infine, uno strumento cruciale mi sembra il confronto, con gli autori, con i traduttori, con i colleghi redattori. In casa editrice non passa un’ora senza che ci si rivolga a vicenda le domande più assurde e strampalate suscitate dal titolo su cui si sta lavorando: in questo periodo di isolamento è senz’altro la cosa che mi manca di più.

Quanto è importante per una persona che lavora in redazione uscire dagli uffici e frequentare eventi e fiere editoriali? Fa la differenza?

Per me è fondamentale, non tanto per il lavoro di redazione, ma per la parte editoriale in senso stretto, che ancora una volta a mio avviso è fatta soprattutto di relazione, incontro e confronto.
Dal punto di vista pratico la ricerca di manoscritti e nuovi autori si potrebbe svolgere tranquillamente in solitudine, la maggior parte delle volte bastano un computer e una connessione a internet. Lo stesso vale per i rapporti con editori e agenti: si potrebbero anche mantenere semplicemente via mail.
Eppure le fiere continuano a essere un momento importantissimo: il contatto diretto non solo con i classici interlocutori ma anche con i colleghi stranieri è qualcosa che fa ancora la differenza, almeno per me. Molto spesso capita che un titolo si perda nella grande quantità di submission ricevute, per esempio, e ci si ritorna solo dopo averlo sentito nominare a un editor amico, o consigliato magari a una cena, quel momento in cui dopo tutta la giornata in fiera gli editoriali comunque non fanno altro che parlare di libri.
Questo per quanto riguarda le fiere di diritti. Forse sarò considerata una redattrice anomala se dico che adoro anche le fiere di pubblico, come il Salone del Libro di Torino, BookPride o Più Libri Più Liberi. Mi piace esserci, passeggiare per i corridoi e salutare colleghi che spesso incrocio solo in quelle occasioni, ma anche e soprattutto passare del tempo allo stand, incontrare finalmente i lettori e continuare con loro un dialogo iniziato davanti alla scrivania, con la pubblicazione di un titolo o la scelta di una copertina, e magari consigliare un libro che farà loro compagnia per un pomeriggio, o forse per molto tempo dopo la lettura.

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In che modo il tuo lavoro da traduttrice influenza quello da editor? Come ti approcci alle traduzioni altrui?

Credo che il lavoro in casa editrice aiuti moltissimo il mio lavoro di traduttrice, e viceversa. Come editor, ho la possibilità di leggere e lavorare su tante traduzioni, di collaborare con colleghi illustri dai quali ho tutto da imparare, e d’altra parte tradurre in prima persona mi aiuta a mettere meglio a fuoco il lavoro svolto da altri su un determinato testo, e credo possa essere utile per affinare la pratica di revisione, che è un passaggio sempre molto delicato e a mio avviso utilissimo.
In linea di massima, lavorare con le parole anche quando non sto traducendo mi sembra ogni giorno una fortuna, al punto che non so se sarei in grado di dedicarmi ad altro. Certo, può diventare un tantino esasperante… ragione per cui la sera i libri si accumulano sul comodino ma spesso Netflix ha la meglio, e a patirne sono sempre le letture di piacere.

Oltre a quello che ci hai già raccontato vediamo che fai parte del corpo docenti della Scuola del Libro, ce ne vuoi parlare?

Sì, da qualche anno ho la fortuna di collaborare con la Scuola del libro: mi occupo del workshop annuale di impaginazione; tengo varie lezioni all’interno del master Il lavoro editoriale, coprendo anche in questo caso la parte di impaginazione e l’introduzione allo scouting su autori stranieri. Da poco la scuola ha poi avviato anche un master in traduzione letteraria, Alias: io seguo la classe di spagnolo, insieme a due grandi professioniste come Francesca Lazzarato e Gina Maneri, occupandomi soprattutto di revisione e scouting.
Insegnare mi piace moltissimo, perché mi offre sempre nuovi spunti e apre prospettive inedite sul lavoro in casa editrice, mi aiuta a mettermi in discussione e ad aprire un dialogo sempre nuovo. Sono certa di imparare moltissimo ogni volta, e spero di comunicare agli studenti almeno un po’ di quell’entusiasmo che mi sembra indispensabile per buttarsi in questo mondo.

Non si deve chiedere mai com’è il vino all’oste, ma non ci importa: quali titoli, tra quelli ai quali hai lavorato, ci consigli?

È difficilissimo scegliere: SUR pubblica pochi titoli all’anno per collana, quindi ognuno è il frutto di una selezione radicale e di un innamoramento pressoché assoluto. Sono molto contenta del catalogo che poco a poco stiamo costruendo, e proprio per questo uno dei libri a cui sono più legata è Andarsene di Rodrigo Hasbún: è il primo romanzo contemporaneo che ho scelto per SUR, e ho avuto anche la fortuna di tradurlo. Un libro a mio parere raro per intensità e fascino, che in poco più di cento pagine racconta la storia vera (e la rovina, altrettanto vera) della famiglia Erlt, in particolare di Monika, balzata agli onori della cronaca come la donna che vendicò Che Guevara. A breve, speriamo in giugno, uscirà il nuovo romanzo di Hasbún, Gli anni invisibili, diversissimo nella trama e inconfondibile per lo stile. Quanto agli autori classici che abbiamo in catalogo, il mio debole per Onetti ormai è noto.
Chiudo con due consigli che esulano da SUR, due libri usciti nel 2019 ai quali ho lavorato come traduttrice, divertendomi e disperandomi moltissimo: Che vergogna, una raccolta di racconti dell’autrice cilena Paulina Flores, pubblicata da Marsilio; e La parte inventata, mastodontico romanzo dell’argentino Rodrigo Fresán, uscito per LiberAria.

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Pensi ci sia consapevolezza da parte del lettore medio del lavoro che viene svolto nelle redazioni sui titoli pubblicati? Oppure vale ancora la regola del “l’ha scritto l’autore e basta”?

È un argomento complesso, e molto difficile da affrontare, a partire dal concetto di “lettore medio”, che proprio non so dire a cosa corrisponda. Forse chi davvero rientra nella definizione lettore medio italiano legge se va bene un paio di libri l’anno e no, non credo proprio conosca il mondo editoriale né tantomeno il lavoro che c’è dietro ogni singolo titolo. È una delle ragioni per cui molto spesso i libri vengono considerati prodotti troppo cari: a questo proposito ricordo una bella iniziativa di Eris edizioni che, da qualche anno, inserisce in ogni libro un disclaimer che chiarisce il peso di ogni elemento sul prezzo finale di copertina. Su questo per esempio sarebbe interessante creare un po’ più di consapevolezza.
Eppure, nello stesso contesto, vedo crescere ogni giorno una comunità di lettori forti molto più che informati, attentissimi alle novità e al percorso di ogni editore, e che in prima persona contribuiscono a divulgarne il lavoro e l’impegno; quindi, insomma, non mi sento di generalizzare.
In linea di massima, però, mi sembra che negli ultimi anni siano aumentate molto le occasioni di approfondimento, a disposizione di ogni lettore anche minimamente curioso: tutti i partecipanti della filiera, a partire dagli editori, sono attivi sui social; i librai sono sempre un vulcano di idee e proposte di incontro; ci sono nuovi spazi sui giornali dedicati a librai, traduttori, a volte anche a book influencer; in ogni fiera ormai c’è una serie di appuntamenti che mette al centro gli addetti ai lavori, e spesso le librerie stesse organizzano cicli simili.
Mi sembra sia sempre più chiaro il fatto che ogni libro è frutto di una rete complessa di rapporti e competenze e, più che lavorare sulla visibilità di ogni singola figura, credo sarebbe bello trovare nuovi modi per porre l’attenzione sulla bibliodiversità che non sempre viene mostrata al meglio sui banconi delle librerie, o almeno non di tutte.

Prima di lasciarci, considerando il momento difficile in cui stiamo vivendo come pensi che cambierà il mondo dell’editoria finita l’emergenza? Pensi che ci troveremo in una situazione del tipo che le case editrici saranno costrette a stampare meno libri e quindi ad aumentare la qualità generale della produzione?

Non ho in alcun modo le competenze per avventurarmi in ipotesi sull’evoluzione dell’editoria in questo momento storico. Senz’altro questa emergenza ha costretto tutti a rallentare, fin quasi a fermarsi, e credo sarebbe meraviglioso se contribuisse ad alimentare la consapevolezza che, molto spesso, meno è meglio. Per molti la ripartenza non sarà facile, per alcuni purtroppo sarà impossibile. Che sogno sarebbe se l’intero settore si rendesse finalmente conto che ha la fortuna di lavorare con prodotti che non scadono, che hanno una vita più lunga dei due mesi scarsi che passano in vetrina, e che forse quella famosa ipotesi di decrescita felice che circola ormai da anni potrebbe rappresentare una soluzione?
In un’intervista recentissima, l’editore Antoine Gallimard ha dichiarato: «Non credo che il mondo cambierà, sarebbe troppo bello…» D’altro canto, anche qui già si parla di un imbuto che favorirà soltanto i best seller.
Staremo a vedere: purtroppo anche la frase «aumentare la qualità generale della produzione» assume un significato diversissimo a seconda del punto di vista. Personalmente, credo che da una parte ci sia purtroppo un evidente rischio di concentrazione di mercato ancora maggiore, e dall’altra che i lettori forti continueranno a esserlo, continueranno a considerare i libri dei beni di prima necessità e continueranno a cercare e ad apprezzare quella bibliodiversità di cui sopra.

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