#RadicalBookFair | Intervista a Fabiano Massimi: il thriller, la storia e la scrittura

Fabiano Massimi, nato a Modena, laureato in Filosofia tra Bologna e Manchester, bibliotecario alla Biblioteca Delfini di Modena, da anni lavora come consulente per alcune tra le maggiori case editrici italiane. L’angelo di Monaco è stato l’esordio italiano più venduto alla London Book Fair 2019.

Traduttore, consulente editoriale, Fabiano Massimi è anche scrittore. L’angelo di Monaco, edito Longanesi, porta nuova luce sulla vicenda di Angela Raubal. Gli abbiamo fatto qualche domanda a riguardo, ma non solo. Ecco le sue risposte!


Fabiano Massimi, lavori come consulente, traduttore e editor. Curi antologie, sei bibliotecario della Biblioteca Delfini di Modena. Non solo però, sei anche scrittore. Il tuo ultimo romanzo, pubblicato per Longanesi, è L’angelo di Monaco, un’indagine tra realtà e finzione intorno alla figura di Angela Raubal, la nipote di Adolf Hitler. Come è nata l’idea del romanzo?

Nel modo più piacevole, ovvero leggendo un altro romanzo, il thriller storico-politico Monaco di Robert Harris, in cui si racconta una pagina celebre della storia del Novecento: la conferenza di Monaco 1938 con cui il primo ministro inglese Chamberlain ottenne un rinvio cruciale della seconda guerra mondiale. A un certo punto un personaggio inventato da Harris capita nell’appartamento monacense del Führer, e lì si imbatte nella stanza-mausoleo dedicata alla “famosa” nipote di Hitler, morta suicida nel 1931 in circostanze più che misteriose. Per me, che non ne avevo mai sentito parlare, fu un fulmine a ciel sereno. Subito pensai che Harris potesse essersi inventato l’intera vicenda, tanto era sensazionale: Geli Raubal fu ritrovata morta in casa di Hitler, in una stanza chiusa dall’interno, uccisa da un colpo partito dalla pistola dello stesso zio-tutore, e l’indagine successiva venne insabbiata rapidamente nonostante esistessero parecchie incongruenze nei rilievi della polizia. Una storia come questa dovrebbe essere universalmente nota, e invece non solo non la conoscevo io: non la conosceva nessuno tra quelli cui la accennavo. E siccome man mano che la approfondivo si accumulavano scoperte e colpi di scena sufficienti per un bel thriller, a un certo punto ho deciso di provare a scriverlo io.

In L’angelo di Monaco ci troviamo nel 1931, a settembre, in una Repubblica di Weimar arrivata quasi al capolinea. Immaginiamo che la ricerca per scrivere quasi 500 pagine debba essere stata di grandi proporzioni. Pensi che sia sempre importante quando si parla di finzione nella realtà?

La ricerca per l’Angelo è stato importante, e molto meticolosa. A fondo libro riporto una bibliografia di quasi settanta titoli proprio per ribadire che poche cose nel romanzo sono inventate, e che quando lo sono cercano comunque di rispettare la Storia così come risulta agli atti, limitandosi a riempire buchi nella nostra conoscenza del periodo e non contraddicendo nulla che invece sappiamo per certo. In generale non so quanto questo lavoro sia importante per la narrativa – nel fantastico i mondi non si ricostruiscono, si costruiscono – e va detto che a volte un bel tradimento produce effetti notevoli anche nella fiction realistica, come testimoniano un altro romanzo di Harris, Fatherland, e Bastardi senza gloria di Tarantino (ma anche C’era una volta a Hollywood). Di certo, scrivendo un romanzo storico è necessario essere accurati, pena la perdita di credibilità quando il lettore incappa in un errore marchiano. Se si aggiunge che l’Angelo è un thriller a struttura gialla (un classico delitto della camera chiusa), l’aderenza alla realtà diventa ancora più importante: i luoghi dell’indagine sono reali, molti dei testimoni realmente esistiti, e barare al riguardo avrebbe inficiato l’intero racconto, una cosa che non potevo permettermi. La storia di Geli è vera, anche se dimenticata, e io volevo rimetterla in circolo, renderle giustizia, quindi non potevo rischiare che il lettore dubitasse della sua veridicità per colpa di qualche dettaglio incongruo.

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Adolf Hitler, oltre ad essere lo zio materno di Geli, è anche uno dei personaggi che fai vivere su carta, insieme a Goebbels, Himmler e Göring. È stato difficile scrivere di questi uomini? Quanto è difficile non lasciar trapelare un giudizio su personaggi storici scomodi?

Scrivere di Hitler e del suo cerchio magico è stata una sfida più divertente che intimorente. Siccome Geli era al centro di questo cerchio – la sua più grande sventura, in effetti – non avrei potuto raccontarne vita e morte senza mettere in scena quei personaggi. A me, perlomeno, sarebbe sembrata una truffa, o nel migliore dei casi un’occasione mancata. Ma come farlo evitando da un lato il falso storico e dall’altro il macchiettismo? Per fortuna le ricerche mi hanno consegnato una risposta solida a entrambi i rischi: siccome tutti quei personaggi conobbero Geli molto bene, e siccome lo scandalo della sua morte fu così grande da segnarli a vita, negli anni successivi ne parlarono estesamente in dialoghi, diari, memorie, autobiografie, persino dichiarazioni processuali. Come conseguenza potevo sapere non solo cosa pensavano di Geli e del suo tragico destino, ma anche cosa ne dissero nella realtà, attraverso le loro stesse parole.

Prendiamo Hitler: il mio commissario Sauer nasce dal vero kriminalkommissar Sauer che lo incontrò il giorno stesso del ritrovamento di Geli. I verbali dell’indagine svolta a suo tempo esistono ancora e riportano nel dettaglio le risposte di tutti i testimoni di casa Hitler, lui compreso. E proprio attorno alle sue sorprendenti parole ho costruito tutto lo scambio che si può leggere nel libro, e dal quale cerco di far emergere non il Mostro a una dimensione che tutti conosciamo, ma un uomo reale, vivo, con tutte le sue contraddizioni. Hitler, mi ha stupito scoprire, aveva ottime maniere: gliele avevano insegnate le tante donne forti che, durante la sua ascesa, lo riempirono di attenzioni, introducendolo nei salotti buoni ed esponendolo all’arte, alla musica, al galateo del tempo. E io credo che il dovere di uno scrittore storico sia proprio questo: mostrare la persona dietro il personaggio, descrivendola a partire da dati storici e senza deformarla attraversi i propri giudizi, in modo che a giudicare sia poi il lettore.

Poi certo, un personaggio del romanzo può anche dire di Hitler quello che ne penso io, ma magari ne troverete anche alcuni che dicono il contrario, come accadeva davvero a quei tempi. Un altro buon esempio è Himmler: leggendo saggi come la biografia di Peter Longerich, ma anche il suo diario in forma di lettere alla moglie, si imparano dettagli incredibili su questo piccolo uomo che tenne in pugno per quindici anni il destino di milioni di persone, e in origine era un pollicoltore fallito. Raccontando questo aspetto risalta ancora di più quello, e il senso di realtà del romanzo ne esce accresciuto.

La vicenda in realtà si auto conclude, ma sappiamo che il caso Raubal continua a far parlare di sé. Dobbiamo aspettarci un seguito, o se non proprio un seguito, un altro libro sulla vicenda?

La risposta secca è: no, non ci sarà un seguito dell’Angeloce ne saranno diversi. Questo, all’inizio, non mi era affatto chiaro, perché come ho detto il mio primo obiettivo, oltre a regalare ore piacevoli ai lettori, è sempre stato rendere giustizia a Geli Raubal, rimettere in circolo il suo ricordo. Nel romanzo Geli non c’è – è solo un fantasma, dal momento che il meccanismo giallo si muove dalla sua morte – ma nell’arco della narrazione il mio compito di testimone, per così dire, si esaurisce. Il libro può essere letto da solo, nulla rimane sospeso. È successo però che per scrivere la storia di Geli ho dovuto creare (o meglio sub-creare) alcuni personaggi, e questi hanno preso una vita loro che si estende in alcuni casi ben oltre la fine dell’Angelo. Inoltre ho scoperto che alcuni anni dopo la conclusione della storia di Geli accadde una cosa – un episodio reale e ben documentato – che la riapre e poi richiude ancora più compiutamente. Ma per arrivare a raccontare quel fatto mi serviranno alcune tappe, e quindi alcuni romanzi – se il pubblico lo vorrà – cui prenderanno parte i personaggi sopravvissuti alla fine dell’Angelo.

Vediamo che L’angelo di Monaco è stato il romanzo italiano d’esordio più venduto alla London Book Fair. Già in corso di traduzione in dieci lingue, la storia di Geli quindi verrà letta ancora da più persone. Che effetto ti fa questo successo?

Difficile dirlo. Le prime traduzioni, quella portoghese e quella spagnola, usciranno tra giugno e luglio, poi a seguire la francese, l’olandese eccetera, ma al momento è un pensiero astratto, impalpabile, e inoltre la fortuna dell’edizione italiana è stata così sorprendente – a quattro mesi dalla pubblicazione l’Angelo è ancora vivissimo in libreria, e ogni giorno mi arrivano messaggi e apprezzamenti dai lettori – che fatico a mettere tutto in prospettiva. Di sicuro fa piacere sapere che la storia di Geli, dimenticata per quasi novant’anni, torni in circolo con questa forza anche grazie al mio romanzo. E chissà come sarà ricevuta negli altri paesi? Chissà se ciò che ha colpito il pubblico italiano colpirà in modo uguale o diverso oltre confine? Lo scorso novembre mi trovavo a Bookcity, dove ho potuto chiacchierare un po’ con Lee Child, Ken Follett, Kate Mosse e JoJo Moyes, chiedere a questi quattro giganti globali se la ricezione delle loro opere ha costanti intorno al mondo oppure si differenzia paese per paese, continente per continente. Le risposte sono state più che spiazzanti: romanzi storici tradotti come storie d’amore, dichiarazioni dei personaggi ribaltate per venire incontro al gusto dei singoli paesi, titoli minori ovunque che in un certo paese diventano super-bestseller… Sono molto curioso di vedere cosa succederà ai miei cari Mutti e Sauer quando si metteranno a parlare greco, polacco o norvegese.

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©Yuma Martellanz

Come abbiamo detto in precedenza, tra quello di cui ti occupi c’è anche la traduzione. Tra i diversi autori che hai tradotto ricordiamo Kit Whitfield, Roger Smith e Julie Kanavagh. La traduzione ha modificato il tuo modo di scrivere?

La traduzione è la cosa più vicina che esista alla scrittura creativa. Si potrebbe chiamarla «scrittura ri-creativa», anche in senso edonistico, perché tradurre è piacere puro, chi ha provato lo sa. Ma forse dovrei chiamarla «scrittura sub-creativa», mutuando il concetto da Tolkien e Lewis, secondo i quali lo scrittore non crea – solo Dio può creare – ma manipolando il creato con la sua immaginazione sub-crea, un’operazione non meno delicata. Ecco, tradurre è manipolare ciò che qualcun altro ha creato in modo da ottenere un’opera necessariamente nuova, che però rispetto a quella di partenza conserva un legame di profondo rispetto, e di gratitudine. I libri che ho avuto la fortuna di tradurre nel corso degli anni hanno sicuramente modificato il mio modo di vedere la scrittura, non fosse altro perché entrando nelle architetture di altri autori ho potuto capire come avevano lavorato, e mimando il loro stile ho pian piano calibrato il mio. Di certo è un esercizio che consiglierei a chiunque, proprio come ai pittori in erba si consiglia di copiare i quadri dei grandi artisti, imitandone il gesto per appropriarsene e poi superarlo.

Questa stessa domanda si potrebbe fare nei confronti dell’editing, visto che ti occupi anche di quello. Pensi che uno scrittore dovrebbe cimentarsi anche con le altre professioni editoriali?

Domanda molto interessante, e molto difficile. In Italia abbiamo una forte tradizione di scrittori-editor, da Vittorini e Calvino e Valerio e Postorino, per cui non vedo alcuna controindicazione. Anzi. Dedicarsi ai libri degli altri può essere anche propiziatorio, distraendo dall’ossessione divorante del proprio testo, e come per la traduzione posso testimoniare che si impara moltissimo, a studiare da dentro la scrittura di altri. Lavorare alle trame di scrittori come Tullio Avoledo, un vero maestro, o assistere da vicino alla stesura di capolavori come Troppi paradisi di Walter Siti, uno dei libri più importanti degli ultimi vent’anni, mi ha insegnato molto più di quanto possa spiegare sul mestiere di scrivere. Detto questo, non credo che uno scrittore debba necessariamente o anche preferenzialmente cimentarsi nell’editoria: si arriva al romanzo per mille strade, e ognuna è diversa, nessuna consigliabile rispetto ad altre, anche perché ogni autore è diverso (banalità che va sempre riaffermata).

C’è chi per accumulare materiale deve viaggiare, e allora un lavoro fisso non è auspicabile, e c’è chi ha al contrario bisogno di un territorio suo, di certezze, e allora l’editoria in quanto mestiere totalizzante e un po’ ballerino potrebbe non essere l’ideale. Soprattutto, non è detto che lavorare con le parole tutto il giorno metta nella giusta disposizione d’animo per scrivere poi nel tempo libero. Conosco personalmente scrittori-bancari, scrittori-informatici, scrittori-manager, scrittori-operai, persino scrittori-pizzaioli, e sinceramente nei loro libri non si avverte mai la professione di base. Magari si avverte se di base c’è una professione, ecco – il che mi porta all’unico consiglio che darei a chi vuole scrivere nella vita: a meno che non siate Ernest Hemingway, trovatevi un lavoro solido. Scrivere è un’arte lunga e impegnativa, che si nutre della stabilità, della regolarità e persino delle limitazioni di una vita regolata.

Parlando di scrittura. Leggiamo anche che hai conseguito il master biennale in tecniche della narrazione presso la Scuola Holden di Torino. Ci vorresti parlare di questa esperienza?

Molto volentieri, perché il quadriennio passato in corso Dante (parliamo della prima iterazione della Holden, quella al secondo piano di una bella palazzina liberty a due passi dal Parco del Valentino) ha rappresentato l’esperienza formativa più importante della mia vita. Prima due anni come studente del Master in tecniche della narrazione, poi altri due come terzannista e bibliotecario interno mentre svolgevo i miei stage alla Stampa e in Einaudi, frequentando quotidianamente artisti affermati in tutti i campi della narrazione (ma alla Holden insegnavano anche chef stellati e «nasi» dell’industria profumiera), bazzicando il Torino Film Festival e il Salone del libro dall’alba al tramonto, esercitandosi con tutor come Giorgio Vasta o Sandro Veronesi, ma soprattutto discutendo e respirando tutto il giorno narrativa, cinema, fiction… Un periodo unico, irripetibile, che mi ha lasciato tanto e a cui sono sempre grato. Con un mio compagno di corso ci raffiguravamo la Holden come una serra, e a tutt’oggi mi sembra quella l’immagine più giusta: un luogo in cui concentrare energie e nutritivi per crescere, crescere, crescere insieme a talenti consimili. Solo dalla mia classe sono uscite scrittrici come Lorenza Ghinelli e Francesca Bertuzzi, scrittori come Jacopo Masini, saggisti come Carlo Greppi – e negli anni contigui c’erano Cristiano Cavina, Marco Peano, Emiliano Poddi… Poi non mi addentro nelle professioni editoriali, nel cinema, in tv, nella radio, dove gli holdeniani sono numerosissimi, e piuttosto stimati. In Italia non c’è un’altra realtà così, e io sono orgoglioso di averla frequentata.

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L’angelo di Monaco è un thriller storico. Hai però scritto anche un giallo, Il club Montecristo, che è stato il vincitore del Premio Tedeschi 2017. Un giallo classico ma non troppo. Com’è stato partecipare al Tedeschi?

È stato molto importante. Una svolta inattesa nel mio percorso di scrittore, diciamo l’ultima spinta per decidere che potevo provarci sul serio. Il Club, che tornerà in libreria quest’estate nella nuova collana del Giallo Mondadori (quella di Km 123, per capirci), è il primo romanzo che io abbia mai completato, un giallo classico-umoristico che ruota intorno a un gruppo di ex detenuti decisi a rigare dritto e non finire più dentro. Poi però uno di loro viene accusato di un delitto che non ha commesso e gli Ammutinati, come si fanno chiamare, decidono di trovare il vero colpevole usando le loro particolari conoscenze criminali. Rispetto all’Angelo, tutt’altro genere e corpo – non arriva nemmeno a duecento pagine, e può assomigliare ai gialli di Manzini o Malvaldi –, ma con diverse affinità. Devo a Franco Forte, scrittore e editor di razza, l’aver scorto del potenziale in quel primo romanzo spedito al Premio Tedeschi sul filo di lana (in effetti usai la scadenza come sprone per finirlo – finire le cose, all’inizio, è il compito più arduo per qualsiasi scrittore). Trovarsi pubblicati nello storico Giallo Mondadori da edicola, in compagnia di grandi come Carlo Lucarelli, Loriano Macchiavelli, Daniela Comastri Montanari e Giulio Leoni, è stata una bella iniezione di fiducia, e l’apertura di una strada che continuerà: il secondo episodio della serie è già scritto, e previsto in libreria a inizio 2021. In generale, visto che mi scrivono in diversi per avere consigli su come arrivare a pubblicare, posso raccomandare i concorsi letterari, che in Italia sono anche numerosi. Per il racconto, Esperienze in giallo di Fossano e il Gran Giallo di Cattolica, per il romanzo il premio Tedeschi e il torneo letterario IoScrittore.

L’angelo di Monaco è uscito a inizio anno. In cantiere hai già qualcos’altro? Cosa ci possiamo aspettare? Un nuovo romanzo, una nuova traduzione?

Ho appena iniziato a scrivere il seguito dell’Angelo, che conto di finire per settembre – la ricerca è già tutta fatta, e anche una scaletta molto dettagliata – in modo da consegnarlo a Longanesi per una pubblicazione nel 2021. Dopodiché vorrei dedicarmi a un altro romanzo cui tengo molto, di nuovo un thriller storico su un episodio poco noto e mai raccontato, il cui spunto è arrivato direttamente dal mio editore. La fortuna dell’Angelo mi metterà forse in condizione di iniziarlo a fine anno, con buon speranze di pubblicarlo nel 2022. Chissà. Speriamo. La mèta dello scrittore, in fin dei conti, è continuare a scrivere per sempre.

Prima di lasciarci volevamo chiederti, vista la situazione attuale, come pensi cambierà il modo di scrivere? Nasceranno nuove forme di narrazione?

Non credo che il coronavirus cambierà granché nell’arte, come non l’hanno cambiata la peste, la Spagnola o l’HIV. Nell’arco di una vita si tratterà comunque di una piccola parentesi (almeno spero) e la letteratura ha già esplorato molte volte le conseguenze più estreme di una pandemia come questa. Quanto alle forme di narrazione, in realtà ho il sospetto che, gira e rigira, siano sempre le stesse, avanguardie comprese. Le grandi svolte nell’arte narrativa sono derivate da innovazioni tecnologiche (la carta, il libro, la radio, il cinema, la televisione, lo streaming) più che da terremoti letterari. Alla fine dei conti, Apuleio o Boccaccio non raccontavano diversamente da come raccontiamo noi, fatta eccezione per la predominanza del dialogo, che è un tratto contemporaneo ma risale comunque a un secolo fa. Secondo me, se posso sbilanciare una previsione, quello che cambierà nel breve periodo sarà il modo di leggere, con un nuovo accento sull’elettronico e una mutazione profonda del nostro vivere librerie, biblioteche, presentazioni e festival. Ma questa, direi, è tutta un’altra storia.

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